Un paio di giorni fa ho avuto il piacere di recensire Coma, un atipico browser game sviluppato dalla giovane Atmos Games. Scrivere quell’articolo è stato probabilmente uno dei compiti più interessanti e allo stesso tempo ostici che sia capitato nella mia breve carriera da redattore. Questa professione ci abitua talmente tanto a descrivere un prodotto in maniera schematica e analitica, che spesso ci capita di tralasciare l’aspetto sentimentale legato a un videogioco; d’altronde il nostro compito è analizzare e commentare la pubblicazione di un team di sviluppo, lasciando fuori tutto ciò che deontologicamente non ne fa parte.
Troppo di frequente siamo talmente legati alla tradizione di un media che non riusciamo a coglierne l’evoluzione e/o la sperimentazione: la poesia è un esercizio di forma, il romanzo un veicolo per narrare una storia esattamente come la cinematografia, il cartone animato è tipico esclusivamente della fase infantile e i videogiochi possono essere solamente in grado di divertire. Tali affermazioni, che in certi casi somigliano molto a dei luoghi comuni, ci portano velocemente a estremizzarne il significato: i videogiochi DEVONO solamente divertire. È giusto che sia così? Di tanto in tanto si riaccende il focolare della discussione sulle capacità artistiche dei videogame, sulla loro funzione e su tutti i significati intrinsechi che potrebbero portarsi appresso. Talvolta però in questo discorso ci si dimentica di come il centro dell’attenzione non siano tanto i giochi virtuali che amiamo, quanto il senso stesso della parola “arte”.
Senza entrare in complessi discorsi filologici, ci limiteremo a definire artistico qualsiasi mezzo in grado di trasferire emozioni dal creatore al fruitore. Esattamente come un lento folk di Damien Rice può farci pensare malinconicamente al passato e il Guernica di Picasso riflettere sugli orrori della guerra, discorso analogo può essere fatto per i media videoludici. Il cinema attraversò lo stesso travaglio prima di essere ammesso nel firmamento delle arti nobili, guadagnandosi meritatamente quel settimo posto rimasto vacante per troppo tempo; il fascino della pellicola risiede proprio nella sua capacità di coinvolgere contemporaneamente due sensi dello spettatore, vista e udito, che ne amplificano la componente emotiva. Le possibilità offerte da un videogame sono quindi ancora più elevate, proprio perchè in grado di integrare direttamente l’attività del giocatore; la capacità di immedesimazione è la sua vera forza.
Coma non diverte, perlomeno non lo fa nel senso canonico del termine, ma ci intrattiene in quei venti minuti che servono per portarlo a compimento e ci accompagna in un viaggio caratterizzato da introspezione e ricerca di noi stessi. La produzione Atmos Games è paragonabile a un quadro astratto nel quale le figure perdono i definiti contorni che le definiscono tali, e non è il primo gioco che riesce a farlo: Flower, Limbo, Yume Nikki, la lista potrebbe continuare praticamente all’infinito, includendo persino qualche produzione a tripla A come Left Behind, l’acclamato DLC di The Last of Us, oppure la serie Bioshock. Purtroppo la realtà dei fatti è molto più profonda di quanto la superficie voglia farci credere; il critico americano Roger Ebert nel 2009 avanzò questa interessante tesi:
La più grande differenza fra arte e videogioco sta proprio nel fatto che un gioco si può vincere: ci sono regole, punti, obiettivi da raggiungere. Nel caso in cui non si presentasse nulla di tutto ciò, allora in quel momento un gioco smetterebbe di essere tale divenendo la rappresentazione di una storia, una piéce teatrale, un balletto classico, un film interattivo. Queste sono cose che ‘non si possono vincere’, ma solamente sperimentare in prima persona.
Il dibattito sulla dignità artistica di certe produzioni non dovrebbe neanche esistere, proprio perché si annulla alla radice. Possiamo benissimo negare che certi titoli siano effettivamente classificabili come ‘videogiochi’, ma siamo sicuri che gli sviluppatori mirassero a tale classificazione? Ci stiamo avvicinando sempre più a un periodo storico in cui la fusione dei diversi media sta eliminando gli anacronistici confini fra arte ed esperienza, trasmettendoci sempre più facilmente il messaggio degli artisti. Che si tratti di una leggera pennellata sulla tela o il fine lavoro di un programmatore il risultato rimane lo stesso: un qualsiasi evento capace di scatenare emozioni è degno di essere chiamato ‘arte’, senza troppe remore o dubbi sul suo essere lecito. L’arte non ha legalità, tanto meno un veicolo preferito.
Marco Cella